Le Occasioni Ritrovate

ciclo di incontri letterari

LE OCCASIONI RITROVATE

Le Occasioni Ritrovate

Ciclo di incontri letterari e percorsi di narrazione per diventare lettori (e scrittori) consapevoli

Il ciclo di incontri letterari “Le occasioni ritrovate”, che è iniziato a settembre 2021, ha il proposito di ridare degna attenzione a quegli scrittori del ’900 italiano che hanno rappresentato un momento importante all’interno del panorama culturale del XX secolo, e che riteniamo debbano essere recuperati alla nostra memoria per raggiungere una maggiore consapevolezza dell’essere sia scrittori che lettori.

Ecco allora che il nostro piccolo contributo è quello di dare di nuovo voce a quella “letteratura di parola” in cui centrale è la ricerca espressiva e stilistica. Una parola che, recuperata nella sua purezza semantica, fonetica e musicale, diventa nuova: uguale a se stessa ma anche elemento perturbante e di fascinazione.

Gli incontri, su piattaforma online, saranno gratuiti, si svolgeranno una volta al mese e saranno tenuti da professori universitari, critici letterari e studiosi dei singoli scrittori che verranno di volta in volta proposti. 

Gli incontri si terranno in diretta sul nostro canale YouTube, è sufficiente iscriversi al nostro canale, e poi cliccare sulla campanella per attivare le notifiche delle dirette.

Sulla pagina del canale stesso potrai trovare il conto alla rovescia per l’inizio dell’evento. Fai clic sul pulsante “Imposta promemoria”.

Il promemoria viene impostato nel momento in cui si fa clic sul pulsante. Ti verrà inviata una email da YouTube e potrai visualizzare il promemoria anche da App.

Calendario incontri

Giuseppe Dessì: il “senso del tempo” tra Flaubert e Proust

Vincitore del Premio Strega 1972, Giuseppe Dessì (Cagliari 7 agosto 1909 – Roma 6 luglio 1977) è uno degli scrittori più significativi del Novecento italiano. La sua produzione comprende romanzi (a partire da San Silvano, 1939), raccolte di racconti (a partire da La sposa in città, 1939), una favola (Storia del principe Lui, 1949), testi teatrali (Racconti drammatici [La giustizia, Qui non c’è guerra] Eleonora d’Arborea, 1964). La trincea, in forma di sceneggiato, inaugurò il 4 novembre 1961 il nuovo canale di Rai 2.

Narratore complesso e irriducibile a qualsiasi corrente letteraria, collaboratore di importanti riviste letterarie, tra le quali «Letteratura», «Rinascita», «Botteghe oscure», «Il Ponte», Giuseppe Dessì fin dalla giovinezza si avviò lungo un percorso culturale e filosofico che, passando  per il determinismo leibniziano, il monadismo di Spinoza, la scoperta dell’idealismo e la lezione proustiana, nutre il sostrato  teoretico-letterario di una poetica e di una scrittura intesa come strumento di conoscenza nella “proiezione fantastica” della realtà. Se in una prima fase (San Silvano) Dessì ci presenta una visione soggettiva, lirica, atemporale di quella Sardegna alla quale “il magistero proustiano offre tutte le risorse della memoria” (così nell’intervista rilasciata a Claudio Toscani), successivamente, a partire da Michele Boschino (1942) nel desiderio di “entrare in comunione con un mondo sociale” –  la sua narrativa si apre a una maggiore oggettività di matrice flaubertiana, che proseguirà con i romanzi: I passeri (1955, Premio Salento), La ballerina di carta (1957), Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo (1959), Il disertore (1961, Premio Bagutta 1962); Paese d’ombre (1972).

Ecco dunque – ci suggerisce lo scrittore – il “continuo, mai sopito scontro delle due persone che sono in me, letterariamente parlando, dell’occhio volto all’interno – come dice Debenedetti –  e della contemporanea vista oggettiva ed esteriore delle cose”. Mentre il “riandare indietro nella storia per trovare le ragioni della sete di giustizia di un popolo”, come in Paese d’ombre, rappresenta, secondo lo stesso Dessì, “il modo migliore di essere attuale, ed anche il modo migliore di fare politica”.

Info

Anna Dolfi è professore emerito dell’Università degli Studi di Firenze e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, leopardismo, ermetismo e di narrativa e poesia del Novecento (i suoi ultimi libri sono dedicati a Giorgio Caproni, Giorgio Bassani – di cui ha curato per Feltrinelli l’edizione commentata delle Poesie complete -, Antonio Tabucchi) ha progettato e curato volumi di taglio teorico e comparatistico sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, la saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Si è interessata a lungo di artisti nati in Sardegna, in particolare all’opera di Giuseppe Dessí, di cui ha curato l’edizione del romanzo postumo La scelta (1978), la raccolta degli scritti sulla Sardegna (Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini della Sardegna, 1987/2006) e numerose ristampe per gli “Oscar” Mondadori e per Ilisso. Sua la cura dell’edizione francese di San Silvano e degli atti di un convegno fiorentino (Una giornata per Giuseppe Dessí, 2005). Fondamentale il suo libro sull’autore: La parola e il tempo. Giuseppe Dessí e l’ontogenesi di un “roman philosophique” (1977/2004).  Ha presieduto il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita e da circa un ventennio dirige il GRD, un gruppo di giovani ricercatori che si sono occupati di ordinamento e catalogazione del Fondo Dessí (conservato presso l’Archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux di Firenze) pubblicando suoi testi, diari, corrispondenze.

“Non piangere”! Il grido di dolore e di rivolta delle donne nella narrativa di Anna Banti

Anna Banti (Firenze, 27 giugno 1895 – Ronchi di Massa, 2 settembre 1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, rappresenta  una delle più importanti voci letterarie e culturali del Novecento italiano. Critica d’arte, traduttrice, operatrice culturale e direttrice di rivista (insieme al marito, il critico d’arte Roberto Longhi, fondò e diresse la rivista  «Paragone»), Anna Banti si impone nella letteratura italiana per una narrativa profondamente intrisa di temi legati alla questione femminile.

Autrice di romanzi (tra gli altri, si ricordano Artemisia,1947; Le mosche d’oro, 1962; Noi credevamo, 1967; La camicia bruciata, 1973; Un grido lacerante, 1981) e raccolte di racconti (tra cui Il coraggio delle donne, 1940; Le donne muoiono, 1951; La monaca di Sciangai e altri racconti , 1957; Je vous écris d’un pays lointain, 1971; Da un paese vicino, 1975),  Anna Banti racconta le vite e le esperienze delle sue protagoniste,  dando voce a donne che dalla storia sono state trascurate o dimenticate, di cui un esempio emblematico è la pittrice Artemisia Gentileschi, “una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito fra i due sessi”. 

Eroine che lottano per l’emancipazione e l’autonomia, e che spesso sfidano le convenzioni sociali del loro tempo, cercando di affermare, pur in uno stato di solitudine emotiva e sociale, la propria identità e indipendenza. “Storie di donne indignate e superbe”, e che Anna Banti ci racconta attraverso una “interpretazione ipotetica della storia”,  nella constatazione, precisa la scrittrice, “che non la lettura del presente la interessava, ma quella di tempi remoti in cui la vita umana era, per così dire, definitiva. Donde la conclusione: solo la storia è vita vera”.

Anna Banti è stata una delle prime autrici italiane a esplorare in profondità la condizione femminile e, sebbene  non sia stata direttamente coinvolta nei movimenti femministi del suo tempo, la sua narrativa, sfidando la società patriarcale, ha contribuito a ridefinire il ruolo della donna nella società e nella letteratura,  ispirando generazioni di scrittrici contemporanee.

Info

Francesca Rubini è stata assegnista presso Sapienza Università di Roma, dove nel 2017 ha conseguito il dottorato in Scienze documentarie, linguistiche e letterarie. Interessata alla valorizzazione delle fonti letterarie, nel 2015 si è diplomata presso l’Archivio di Stato di Roma. Le sue ricerche si concentrano sulle forme narrative del secondo Novecento con particolare interesse per le scritture e l’impegno culturale delle autrici. Ha pubblicato numerosi saggi su riviste nazionali e internazionali, una monografia su Cialente (Fausta Cialente. La memoria e il romanzo, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2019) e una su Calvino (Italo Calvino nel mondo. Opere, lingue, paesi 1955-2020, Carocci, 2023). Presso Sapienza è membro del Comitato scientifico del Laboratorio Calvino e responsabile del progetto Biblic. Bibliografia Italo Calvino. Sta lavorando all’ordinamento e alla descrizione del fondo archivistico di Italo Calvino conservato dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. È parte del comitato scientifico della Fondazione Elvira Badaracco – Studi e documentazione delle donne. Ad Anna Banti ha dedicato diversi interventi in convegni, seminari, approfondimenti didattici rivolti agli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza e tre saggi: Note dalla laguna. Venezia in Lavinia fuggita di Anna Banti, «Bollettino di italianistica», 2020, 1-2, pp. 340-345; Lavinia fuggita di Anna Banti. Il racconto come spazio aperto, «Filologia e critica», 2019, 3, pp. 401-420; Le donne muoiono. Anna Banti fra memoria e distopia, in (Ir)raggiungibile. Altri mondi nella letteratura, nel teatro, nel cinema, a cura di Davide Cioffrese, Matteo Massari, Irene Soldati, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021, pp. 195-204.

Stefano D’Arrigo e “l’oscura dannazione del mostruoso”

L’infanzia trascorsa in un piccolo borgo di pescatori che si affaccia sul versante ionico dello stretto di Messina, i ricordi della vita di mare, la fatica per la sopravvivenza, e ancora  le devastazioni della guerra rappresentano alcune delle occasioni – biografiche e culturali– che avrebbero portato Stefano D’Arrigo  (Alì Terme, 15 ottobre 1919 –Roma, 2 maggio 1992) a dare vita a Horcynus Orca, uno dei più grandi e complessi capolavori della letteratura italiana e caso letterario alla sua uscita mondadoriana, con 80.000 copie vendute.

Opera monumentale di 1256 pagine, a cui il suo autore – critico d’arte, poeta e scrittore – si dedicò per circa venti anni (dal 1956 al 1975, anno di pubblicazione),  Horcynus Orca racconta il viaggio di ritorno del «marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa» a Cariddi, «una quarantina di case e testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei due mari».

E se da una parte D’Arrigo fornisce precise indicazioni geografiche e temporali (il quarto giorno, il 4 ottobre 1943, ‘Ndrja Cambrìa arriva all’isola delle Femmine), il viaggio non è solo di movimento, ma diventa anche ricerca di una propria identità,  personale e collettiva, e a cui lo stesso lettore non può sottrarsi. E per raccontarla, D’Arrigo inventa un nuovo linguaggio in cui  realtà e mito, memoria e storia, presente e passato, sogno e  leggenda  si intrecciano, si incastrano, si compenetrano innalzando  la quotidianità a narrazione epica e universale.

 Horcynus Orca è allora esperienza  intellettuale e sensoriale, esperimento totalizzante, da cui non  rimane estranea la grande tradizione letteraria che da Omero porta a Dante Alighieri, che passa per Giovanni Verga e Melville, e che trova nella poesia e nella grande lezione modernista  (Kafka, Joyce, Proust) l’indicazione di una nuova lingua.

Solo «le parole, combinandosi scombinandosi, finiscono per rivelare verità segrete, difficili

altrimenti da conoscere», leggiamo in una pagina di Cima delle Nobildonne (Premio Procida-Isola di Arturo- Elsa Morante e Premio Brancati, entrambi nel 1986).  

Un viaggio dunque, quello raccontato da D’Arrigo, alla ricerca del mistero della vita e dell’arcano della morte,  in quel confine sottile tra il conosciuto e l’ignoto, che condurrà  Ndrja Cambria fino a  «dentro, più dentro, dove il mare è mare».

* Per il titolo è stata  scelta l’espressione utilizzata da Claudio Marabini in  Claudio Marabini, Lettura di D’Arrigo, Arnoldo Mondadori Editore 1978, p.120

Info

Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana, da Consolo a Bufalino, da Sinigaglia a D’Arrigo, da Balestrini a Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Ultime e Penultime (Cronopio, 2001), Si riparano bambole (Sellerio, 2001; Bompiani, 2010), Giunte e Caldaie (Fermenti, 2008), Pagelle (Polistampa, 2010), nonché i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini, tutti editi dalla Polistampa. Fra i suoi lavori più recenti la curatela di Sconnessioni di Nanni Balestrini (Fermenti, 2008), Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (Fermenti, 2009), «Come per una congiura». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Sandro Sinigaglia (Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2015, 2022), Per Giovanni Nencioni, con Luca Serianni, Salvatore C. Sgroi e Pietro Trifone (Fermenti, 2017), i romanzi Là comincia il Messico (Polistampa, 2008), Geco (Fermenti, 2017) e Pelle di tamburo (Caffèorchidea, 2021), le raccolte di saggi critici Scritti diversi e dispersi (Fermenti, 2015), Dinosauri e formiche. Schegge di critica militante (Novecento, 2018), il monologo teatrale La Perfetta (La Mongolfiera, 2021), le sillogi poetiche Rethorica novissima (Il ramo e la foglia, 2021) e Sala da musica (Il Convivio, 2022). Nel 2023 ha pubblicato per Caffèorchidea Maledetta grammatica e nel 2024 per Carocci Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino.

Suoi scritti poetici, narrativi, critici e filologici appaiono regolarmente in riviste accademiche e militanti (tra cui «Strumenti critici», «Studi e problemi di critica testuale», «Filologia e critica», «Studi di filologia italiana», «Italianistica», «Studi linguistici italiani», «Filologia italiana», «Ermeneutica letteraria», «Letteratura e dialetti», «Giornale storico della letteratura italiana», «Moderna», «L’Immaginazione», «Il Caffè illustrato», «L’Illuminista», «Fermenti», «Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», «Microprovincia», «Avanguardia», «Alfabeta2», «In limine», «Italian Poetry Review», «Per leggere», «Malacoda», «il verri», «La lingua italiana», «Steve»), di alcune delle quali è redattore e referente scientifico.

Collabora stabilmente con l’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) con recensioni e rubriche. Dirige la collana «Vallecchi/Italianistica».

Sguardi sulla contemporaneità: Goffredo Parise e la sua eredità letteraria

“Una curiosità sempre insaziabile” caratterizza Filippo, l’io narrante de L’odore del sangue, ed è la stessa insaziabile curiosità che spinge Goffredo Parise (Vicenza 1929 – Treviso 1986) ad avventurarsi non solo per le vie del mondo (famosi i suoi reportages, tra cui Cara Cina, 1966, Due, tre cose sul Vietnam, 1967; Guerre politiche, 1976) , ma anche dentro la complessità e il mistero dell’esistere.

Scrittore, giornalista, autore di sceneggiature (per film di Roberto Rossellini, Mauro Bolognini, Federico Fellini, Marco Ferreri) e di testi teatrali (L’assoluto naturale, 1967), Goffredo Parise a soli 22 anni fece il suo debutto nel mondo della letteratura con il “metafisico”  Il ragazzo morto e le comete, e a cui avrebbero fatto seguito opere che  definiscono la narrativa di uno dei protagonisti più liberi e anticonformisti  Novecento letterario.

E quello che ci racconta nelle sue “favole” “vere” è quel labile confine tra vita e morte, realtà e mistero, quel rapporto fra l’uomo e le cose “che non è solo razionale ma anche sentimentale”, ci spiega lo scrittore.  Un mondo narrativo che Geno Pampaloni, in un articolo del 1966 – riportato da  Claudio Altarocca  in Goffredo Parise (Il Castoro 1972) – aveva suddiviso in 3 precise linee stilistiche: quella “lirico-surreale del mondo dell’adolescenza” (Il ragazzo morto e le comete, 1951, La grande vacanza, 1953); quella “post-neorealista, con forti dosi d’ironia, dei vizi della provincia” (Il prete bello, 1954, Premio Viareggio; Il fidanzamento,1956; Amore e fervore, 1959, poi, nel 1973, intitolato Atti impuri), e la terza, caratterizzata dalla “fantasia del mostruoso che si annida nei rapporti umani di una società maledetta”  (Il padrone, 1965, Premio Viareggio; L’odore del sangue, Il crematorio di Vienna, 1969, Premio Campiello).

Autore di “poesie in prosa”, veri e propri capolavori racchiusi nei Sillabari, autore di uno  dei primi bestseller del dopoguerra (Il prete bello) e Premio Strega nel 1982 con Sillabario n.2 (era già uscito Sillabario n.1 nel 1972),   Goffredo Parise con la sua poetica del “dettaglio” definisce l’idea di una scrittura che non vuole spiegare, ma che lascia aperto quel “margine di discrezione”, quella “componente interrogativa” e segreta che fa parte della vita e che ancora oggi provoca riflessioni e suscita emozioni in noi, lettori contemporanei.

Info

Silvio Perrella è nato a Palermo e vive tra Napoli e Roma, provando a tornare nella sua città natale quando può. Ha all’attivo una ventina di libri nei quali ha mescolato la critica letteraria all’arte dell’immaginazione individuale. I suoi titoli più recenti sono Petraio (La nave di Teseo) e Metronomi sotto i tavoli (ilfilodipartenope). A Goffredo Parise ha dedicato Fino a Salgareda, uscito da Rizzoli nel 2003 e poi più volte ristampato. Ha anche curato e ideato molte sue opere, come, ad esempio, Quando la fantasia ballava il boogie e Lontano, entrambe edite da Adelphi. Una nuova edizione de L’odore del sangue è stata da lui allestita per la Bur Rizzoli. La sua voce si ascolta sia a RadioTre sia alla Radio svizzera italiana.

Romano Bilenchi, “osservatore militante” di quel “percorso misterioso e disperato” che è la vita

Romano Bilenchi (Colle di Val d’Elsa, 9 novembre 1909 – Firenze, 18 novembre 1989) –  scrittore, giornalista, editore e organizzatore culturale –  è uno dei protagonisti  del Novecento, attraverso una militanza civile e politica tutta giocata sul filo della coerenza e della difesa dell’autonomia dell’artista dalle ingerenze partitiche. 

La giovanile adesione agli ambienti del “fascismo di sinistra” ; la partecipazione alla Resistenza, l’iscrizione al PCI di Palmiro Togliatti; l’uscita dal partito, il periodo della guerra fredda fino all’era Gorbačëv e gli anni del “boom”: queste le tappe  essenziali di un percorso biografico e intellettuale che, insieme alla scrittura letteraria, caratterizzano uno dei  testimoni più liberi e anticonformisti della storia letteraria italiana. 

Accanto a un’intensa e prolungata attività giornalistica, che lo vede collaborare prima con riviste e giornali di orientamento fascista («L’Universale», «Il Selvaggio» di Mino Maccari,  il «Bargello» di Giuseppe Bottai , «La Stampa» di Curzio Malaparte «La Nazione»), e poi di area comunista  («Società», «Nazione del Popolo», il «Nuovo Corriere» fino al 1956), si affiancano le due principali stagioni della narrativa di Romano Bilenchi: quella tra gli anni Trenta e Quaranta e quella del decennio Settanta e Ottanta.

L’adolescenza – raccontata all’interno di un tempo “indistinto” e in un paesaggio reinventato dalla memoria e colta nei turbamenti e nei rancori giovanili, attraverso storie amicizia, di indifferenza e di solitudine – è il tema centrale del primo periodo (Maria, 1925; Il Conservatorio di Santa Teresa, 1940; i racconti de Il capofabbrica, 1935; poi confluiti in Dino e altri racconti, 1942; La siccità, 1941; Mio cugino Andrea, 1943).

La storia (Il bottone di Stalingrado, 1972, Premio Viareggio; Cronache degli anni neri, 1984), Il gelo (1982) e il racconto-memoriale Amici (1976, 1988) sono invece gli assi portanti delle opere successive.

E se costante è un “senso di pena e di tragedia”, dall’altra parte, però – ci spiega Bilenchi in un’intervista del 1985 – scrivere “costituisce pur sempre un atto di ottimismo […]. Nei miei racconti, attraverso i diversi personaggi, io ascolto e cerco di costituire questi battiti, questo pulsare della vita”.

Uno scrittore si riconosce “dalla poesia che riesce a raccogliere in quello che scrive e dalle emozioni che dà”. Emozioni che, nell’essenzialità di uno stile asciutto e limpido, le opere di Bilenchi ancora oggi – a distanza di tempo – riescono a regalare a noi, lettori contemporanei.

Info

Luca Lenzini (Firenze, 1954) ha dedicato studi e commenti all’opera di Vittorio Sereni, Franco Fortini, Guido Gozzano, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Alessandro Parronchi, Giuliano Scabia e altri autori novecenteschi, non solo italiani. Ha diretto la Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena dal 1989 al 2021 ed è coordinatore del Centro di ricerca Franco Fortini dell’Università di Siena; dirige la collana “Bilenchiana” per le edizioni Cadmo.

Libero Bigiaretti, scrittore “di sentimenti”

Appartenente a una famiglia di socialisti e capomastri marchigiani, Libero Bigiaretti (Matelica, 1905 – Roma, 1993) è uno dei protagonisti della società italiana del Novecento. Poeta (Ore e stagioni, 1936; Care ombre, 1940; Lungodora, 1955), scrittore, traduttore, corrispondente per diverse testate giornalistiche e autore di testi teatrali, la biografia intellettuale di Bigiaretti non si limita soltanto alla scrittura, ma si apre a collaborazioni che lo vedono dirigere l’ufficio stampa della Olivetti (periodo olivettiano 1952-1963); ricoprire il ruolo di segretario del Sindacato Nazionale Scrittori – ricostituito insieme all’amico Corrado Alvaro e Francesco Jovine nel 1945 -;  e poi realizzare per la Rai, negli anni Sessanta-Settanta, importanti rubriche culturali.

Assiduo frequentatore di Caffè e circoli letterari, amico di scrittori, pittori e poeti (uno fra tutti, l’amico fraterno Giorgio Caproni), autore di testi tradotti in molte lingue straniere, Bigiaretti è “uno dei più impietosi scrittori italiani” (leggiamo nell’intervista con Gilberto Severini in Con i tempi che corrono, 1989).

Riconoscendo all’intellettuale un impegno attivo, e conducendo riflessioni sulla trasformazione della società letteraria e dei consumi e sull’industrializzazione editoriale (con Il dito puntato,1967), attraverso la letteratura, “strumento di intervento sociale”, Bigiaretti entra anche nel mondo dei sentimenti, raccontandoci storie di  amicizia (Un’amicizia difficile, 1945), di conflitti generazionali tra padri e figli (I figli, 1954, stampa 1955, Premio Selezione Marzotto), di dinamiche di coppie (fin da Esterina, 1942).

Storie di amori, seduzioni, tradimenti e fantasie erotiche (La controfigura, 1968, Premio Viareggio) in un percorso inevitabilmente destinato all’atto conclusivo della crisi e del “disamore” (Disamore, 1956).

Deciso a “scardinare i luoghi comuni su cui si fondono i sentimenti”, le sue storie trovano il palcoscenico privilegiato ora nella “rinascimentale” e leopardiana M. (Matelica o Materga) (Carlone. Vita di un italiano, 1950), – spazio mitico e “paradiso perduto” –; ora nella amata e odiata Roma – quella barocca, ministeriale, borghese e felliniana – (Le indulgenze, 1966, Premio Chianciano); ora nelle occasioni congressuali del mondo industriale (Il congresso, 1963).

E in questa società malata e alienata, l’unica consolazione è “un desiderio di distruzione e perfino di strage: bisognava demolire, e uccidere chi aveva costruito gli immondi falansteri, le orrende montagne di cemento balconato”, leggiamo ne Le indulgenze. Fino ad arrivare a quel “sisma cosmico” che il “giustiziere” del surreale Dalla donna alla luna (1972) immagina per liberare la Terra dal “parassita uomo”.

Info

Carla Carotenuto è professoressa associata di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Macerata. I suoi campi di ricerca privilegiati sono gli studi di genere, la scrittura al femminile, la dimensione patemica, la violenza, la fragilità, il rapporto tra letteratura, cultura e territorio, le culture e scritture migranti.

Ha svolto intensa attività didattica e di ricerca anche all’estero, partecipando a convegni internazionali. Ha pubblicato articoli e saggi su scrittrici e autori contemporanei (Ugo Betti, Dacia Maraini, Anna Maria Mori, Fabrizia Ramondino, Valeria Parrella, Pap Khouma, Yvan Sagnet, Elvira Mujčić…) in volumi e riviste scientifiche, ha curato edizioni di testi inediti e rari. Tra i libri: Identità femminile e conflittualità nella relazione madre-figlia. Sondaggi nella letteratura italiana contemporanea: Duranti, Sanvitale, Sereni (2012); con Michela Meschini, Forme e modi del narrare. Proposte critiche sulla letteratura contemporanea (2019).

A Bigiaretti ha dedicato numerosi studi di cui si citano il volume monografico Libero Bigiaretti. Storie di sentimenti. Profilo critico con Appendice di testi rari (2014), i saggi Per una mappatura alimentare in Libero Bigiaretti  (2019), Il fascino della Jugoslavia e il “mito di Sveti Stefan” in Libero Bigiaretti (2021), Romanzo industriale, indagine morale o storia d’amore? Il dibattito su “Il congresso” di Libero Bigiaretti (2021). Di recente ha curato la riedizione dei romanzi Disamore (2022) e I figli (2023).

L’irregolarità di Giuseppe Berto tra scrittura e vita

“Essere scrittore coinvolge tutta intera la personalità d’un uomo, la sua parte conscia e la sua parte inconscia” scrive Giuseppe Berto ( Mogliano Veneto, 27 dicembre 1914 – Roma, 1 novembre 1978), sceneggiatore e  uno degli scrittori più irregolari, anomali e anarchici della letteratura italiana.

Cresciuto nell’impegno di fedeltà alla patria, il giovane Berto per due volte si arruola volontario, partecipando prima  (1935-1939) alla guerra in Abissinia  (La colonna Feletti. I racconti di guerra e di prigionia, 1940); e poi, nel 1942, alla volta dell’Africa settentrionale, tra le file delle Camicie Nere (Guerra in camicia nera, 1955).

Ma è lontano dall’Italia, nel campo di prigionia di Herefeord, in Texas (1943-1945) – dove compagni sono anche Alberto Burri, Gaetano Tumiati e  Dante Troisi – che  inizia la sua grande stagione letteraria, che comprende alcune delle opere indimenticabili della letteratura italiana:  Le opere di Dio (1944); Il cielo è rosso (pubblicato da Longanesi nel 1947 su segnalazione di Giovanni Comisso,  presto diventato successo internazionale e vincitore del Premio Firenze); il capolavoro bestseller dal titolo gaddiano  Il male oscuro (1964), vincitore nello stesso anno dei Premi Viareggio e Campiello; La cosa buffa (1966), La gloria (1978), monologo di quel Giuda traditore, predestinato strumento per realizzare  “le opere di Dio”.

Non c’è Bene senza Male, non c’è soluzione a quel senso di colpa, a  quel male universale, che chiama in causa anche la sfera religiosa, e che accomuna tutti gli esseri umani, di fronte a cui naufragano la prospettiva del sogno socialista (Il brigante, 1951) e quella dell’amore (La cosa buffa, 1966).

Non c’è rimedio  per la sofferenza e la solitudine, perché il male “è in tutti gli uomini insieme. E tutti dobbiamo patire per il male di tutti, anche quelli che non ne hanno colpa”, leggiamo ne Il cielo è rosso.

E in questa “evenienza abbastanza strampalata” che è la vita, forse l’unica possibilità, sembra indicarci lo scrittore, è l’arte del compromesso”, è un “assennato accomodamento” con la vita stessa. Ma è anche il rapporto con  la natura  (Oh, Serafina, 1974, Premio Bancarella), quella natura appartata e incontaminata da cui poter vedere la Sicilia, “luogo della mia vita e anche della mia morte”, il narratore ci dice nel Il male oscuro.

Ma è anche la natura di Capo Vaticano, dove in due mesi Berto scrisse il suo capolavoro, e che scelse come luogo dell’anima.

Info

Saverio Vita è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino.  Si occupa di letteratura italiana contemporanea, con un particolare interesse verso le scritture dell’io. Ha dedicato una parte   importante delle proprie ricerche alla figura di Giuseppe Berto, prima attraverso sondaggi parziali pubblicati su rivista, poi in volume, con la pubblicazione della monografia Un folgorato scoscendere. L’opera narrativa di Giuseppe Berto (Giorgio Pozzi, 2021).

Rovesciare l’“autobiografia delle contraddizioni”: nel nome di Goliarda Sapienza, fuori dai luoghi comuni

Il percorso artistico e letterario di Goliarda Sapienza (Catania, 10 maggio 1924 – Gaeta, 30 agosto 1996) si snoda attraverso teatro, cinema e letteratura, costituendo tre fasi evolutive di una maturazione continua e inquieta, improntata alla ricerca incessante di una propria identità.

Oggi documenti d’archivio, carte e altri materiali – per lo più inediti e scoperti in questi anni – ridimensionano alcuni “luoghi comuni d’autrice” sinora dati per certi, amplificando il quadro (auto)biografico nel segno di una nuova lettura.

Al centro di questo percorso si colloca sempre la parola, che ha assunto diverse sfaccettature lungo il cammino. Inizialmente, la parola della recitazione: il meraviglioso mondo dei personaggi del puparo Insanguine; poi l’esperienza teatrale, iniziata a Roma nel 1941 all’Accademia d’Arte drammatica sotto la guida di Silvio D’amico e non sempre inquadrata verificando i successi che precedono le interpretazioni di Pirandello. Infine, il coinvolgimento nel cinema di registi illustri come Luigi Comencini, Alessandro Blasetti, Luchino Visconti e altri. Ha particolare rilievo la lunga collaborazione con Francesco Maselli, con il quale intraprese un profondo sodalizio professionale e sentimentale ma anche un fondamentale apprendistato come “cinematografara”.

Tuttavia, è nella parola letteraria che l’artista si apre a una nuova dimensione di vita. Inizialmente concepita come un atto terapeutico per elaborare il dolore della perdita della madre, la sindacalista Maria Giudice – è il caso della poesia di “Ancestrale” (2013) –, e le conseguenze di due tentati suicidi, la scrittura letteraria diventa il palcoscenico ideale su cui rinascono le storie e i personaggi recuperati dalla memoria. Questi diventano veri e propri attori protagonisti o comprimari nel ciclo della “autobiografia delle contraddizioni”, che include opere significative come “Lettera aperta” (1967), “Il filo di mezzogiorno” (1969) e il postumo “Io, Jean Gabin” (2010), libri-simbolo di un difficile e complesso percorso editoriale oltre che letterario.

Un racconto a cui Goliarda Sapienza non sottrae nemmeno l’esperienza della detenzione nel carcere di Rebibbia (1980), in seguito al furto – dal sapore provocatorio – di gioielli a casa di un’amica. Opere come L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987) ne testimoniano la straordinaria capacità di trasporre in letteratura anche le fasi più oscure della sua esistenza. Sullo sfondo, tra anni Ottanta e Novanta, una serie di movimenti rilevanti, che la avvicinano e allontanano al femminismo e ad alcuni soggetti istituzionali o letterari, compreso un poco noto “Gruppo di scrittura” fondato da Adele Cambria ed Elena Gianini Belotti.

Ma è soprattutto con Modesta – la protagonista dell’Arte della gioia – che Goliarda Sapienza scrisse, senza saperlo, quello che è considerato il suo capolavoro. Il romanzo, rifiutato a lungo dagli editori italiani, fu pubblicato per la prima volta nel 1998 da Stampa Alternativa grazie al marito, l’attore Angelo Pellegrino. E poi di nuovo nel 2008 per Einaudi, dopo essere stato pubblicato in Francia, Germania e Spagna. I contorni di questa fallita pubblicazione in vita restano sospesi in delicati passaggi che meritano di essere messi in luce, scoperti e commentati.

Nonostante la mancanza di riconoscimento durante la sua vita (reale o presunta, lo chiariremo), i numerosi premi tentati, Goliarda Sapienza è stata successivamente considerata una delle voci più originali e audaci della letteratura italiana del Novecento italiano. Da quasi vent’anni la sua opera è al centro di studi e ricerche; per il centenario della sua nascita sono diversi i convegni internazionali a lei dedicati, in Italia e Francia.

In suo onore è stato istituito, nel 2010, il premio letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere”.

Info

Alessandra Trevisan da anni si dedica allo studio di Goliarda Sapienza, a cui ha dedicato il saggio Goliarda Sapienza: una voce intertestuale (1996-2016) (La Vita Felice 2016) e la monografia «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza (Aracne 2020).

È studiosa di letteratura italiana e si è occupata, tra gli altri, di Gabriele d’Annunzio, Clara Sereni, Adele Cambria, Anna Maria Ortese e Beppe Costa, Lalla Kezich. Dal 2017 collabora alla redazione della rivista «Archivio d’Annunzio» e dal 2018 di «Kepos – Semestrale di letteratura italiana»; è redattrice del lit-blog «Poetarum Silva» ed è co-fondatrice del progetto Le Ortique insieme a Viviana Fiorentino e ad altre scrittrici e studiose. Ha dedicato diversi contributi critici alla scrittrice Milena Milani. È curatrice, insieme ad Arianna Ceschin e Ilaria Crotti, di Venezia Novecento. Le voci di Paola Masino e Milena Milani (2020).

Massimo Bontempelli all’incrocio delle Arti tra realismo, realismi e magia del Novecento

A distanza di più di un secolo dalla pubblicazione delle prime opere di Massimo Bontempelli, ci troviamo a ripercorrere gli snodi cruciali della produzione letteraria dello scrittore lombardo, con uno sguardo rivolto anche alla biografia di un intellettuale militante del proprio tempo, interrogandoci innanzitutto sul perché la materia bontempelliana appare ancora tanto attuale da scaturire un dialogo tutt’altro che esaurito con il lettore contemporaneo. Il quale, del resto, non potrà non scorgere una straordinaria consonanza tra le vicende, i ritratti, le situazioni narrate dall’autore e l’oggi, non solo in virtù di una certa atemporalità che caratterizza spesso certe atmosfere della sua produzione, a tratti situate in uno spazio-tempo sospeso dalla validità onirica e universale,  ma anche e soprattutto per quegli scritti che al contrario appaiono saldamente ancorati al contesto primo-novecentesco, come se egli avesse saputo cogliere con acutissimo sguardo precursore il carattere e le peculiarità più incisive di una società che allora si apprestava confusamente a definirsi e che ai nostri giorni, altrettanto convulsamente, sembra ancora in essere, quella dei consumi e della merceologia, delle masse e della frantumazione dell’io, quella delle telecomunicazioni, delle arti visive, dell’immagine come nuova religione.

Protagonista indiscusso di una stagione ricca di fermenti e di urgenze creative è stato sicuramente

Massimo Bontempelli (Como 1878 – Roma 1960).  Intellettuale complesso e multiforme, ha lasciato la sua firma nella scrittura letteraria; nel giornalismo («La Nazione», «Secolo», Il Primato», «Tempo» «Il Mondo», «L’Unità»); e nel  teatro (Santa Teresa, 1915; La guardia alla luna, 1916; Siepe a nordovest, 1919;  Nostra Dea, 1925; Minnie la candida, 1927; Nembo, 1935; Cenerentola, 1942 e numerose altre opere minori), legando il suo nome al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia e al Teatro degli Undici di Stefano Landi e Orio Vergani, con direzione di Luigi Pirandello.

Una delle esperienze più importanti della sua vicenda intellettuale fu l’ideazione e la direzione della rivista “900” (1926-1929) i cui articoli furono poi da lui raccolti in L’avventura novecentista (1938).

Legato da una lunga amicizia a Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, Massimo Bontempelli si dedicò anche alle arti figurative (Appassionata incompetenza, 1950).

Portò in Italia la poetica del realismo magico che divenne ben presto per lo scrittore comasco il faro in grado di guidare la sua attività e più in generale la Storia. L’esperienza di “900”, di cui fu ideatore e direttore, le sue riflessioni sul Novecento italiano e sui rapporti con l’eredità dell’Ottocento e delle avanguardie hanno contribuito al rinnovamento del romanzo italiano e della cultura del XX secolo.

A seguito della sua produzione giovanile (Socrate moderno, 1908; Amori, 1910; Sette savi, 1912, Il purosangue, 1919), la narrativa di Massimo Bontempelli si aprì a un nuovo corso di scrittura (La vita intensa, 1920; La vita operosa, 1921; La scacchiera davanti allo specchio,1922; La donna del Nadir1924), vedendo nella Grande Guerra uno spartiacque tra la tradizione ottocentesca, compresa  la “fiammata” rivoluzionaria del Futurismo, e l’avvento di una Terza Epoca.

Ed è proprio sulle pagine di “900”  che si avviò quella grande “avventura” che avrebbe portato Bontempelli a interrogarsi sul novecentismo e definire la poetica del realismo magico, di cui sono manifesto le opere della maturità (Il figlio di due madri, 1930; Gente nel tempo, 1937; La donna dei miei sogni, 1925; Donna nel sole, 1928; Gabbia degli schiavi, 1937; Giro del sole, 1941).

Dopo un periodo trascorso all’interno del Partito fascista, che lo aveva portato a esser nominato segretario del Sindacato Fascista Autori ed Editori (1928), direttore de «L’Italia letteraria» (1929) e accademico d’Italia (1930), Bontempelli si avvicinò poi al comunismo, candidandosi per il Fronte popolare ed entrando nel parlamento del dopoguerra.

Premio Strega nel 1953 con la raccolta di racconti L’amante fedele, nel 1960 Massimo Bontempelli terminò la sua “avventura” terrena, rimanendo ancora oggi un importante punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi e gli appassionati dell’incrocio tra Letteratura e Arti del Novecento.

Info

Giovanni La Rosa è nato a Messina, ha compiuto i suoi studi a Roma e si è laureato presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” con la tesi “Siamo tutti in pericolo” Pier Paolo Pasolini e le interviste letterarie. Ha svolto attività redazionali e giornalistiche per conto di società e redazioni di importanti case editrici.

Ha pubblicato una cinquantina di saggi su scrittori del ‘900 abbracciando un arco temporale che partendo da Scipio Slataper, Luigi Pirandello e Massimo Bontempelli ha toccato la seconda metà del secolo breve con Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, fino a giungere alla contemporaneità con importanti contributi su Erri De Luca.

Ha svolto una intensa attività drammaturgica per conto di Scuole Superiori e dell’Università, vincendo anche diversi premi dedicati alla sceneggiatura teatrale.

Ha realizzato negli ultimi anni una ventina di docufilm letterari presentati nel corso di numerosi convegni internazionali.

Attualmente collabora con il Centro di Lingua e Cultura Italiana della Scuola IAD presso l’Università di Tor Vergata con la casa editrice internazionale di fascia A Sinestesie, è membro del comitato scientifico della Rivista degli italianisti brasiliani Mosaico, è responsabile editoriale della Collana I-libri della casa editrice Universitalia ed è Vicedirettore della Collana Editoriale Realisme Magique del Centro Studi “Massimo Bontempelli”.

Ha, inoltre, ideato e curato il convegno internazionale Parigi, salotto del ‘900. Scritture e narrazioni del realismo magico ai confini del XXI secolo. Tenutosi a Parigi il 25 e il 26 ottobre 2018 dedicato alla figura di Massimo Bontempelli con focus sul Realismo magico coniato dallo scrittore comasco.

È Presidente dal 2021 del Centro Studi “Massimo Bontempelli” – Ma.R.Wi.T. – con il quale ha già realizzato una serie di giornate di studi e curato un Convegno Realismo e Realismi: Realtà e Magia all’incrocio delle Arti con la prestigiosa partecipazione del Premio Oscar Walter Murch che si è tenuto a Como il 12 Maggio 2022.

Ha curato i volumi collettanei Le trincee della Letteratura edito da Universitalia nel 2018 e i volumi Scritture e narrazioni del realismo magico ai confini del XXI secolo e Realismo Magico agli esordi della Grande Guerra: esegesi e attualità della ricerca bontempelliana pubblicati nel 2022.

E’ regista del Film Il Sole nell’Abisso e del Documentario Storie dall’Abisso girati nel parco minerario di Gabara in Sicilia con tecniche e contenuti tratti dal realismo magico bontempelliano che saranno proiettati in prima assoluta ad Aprile 2024.

Sta, infine, svolgendo una prestigiosa ricerca su Massimo Bontempelli come scrittore dell’intermedialità presso la Ludwig Maximilian Universität di Monaco di Baviera sotto la direzione del prof. Florian Mehltretter.

La letteratura di Luigi Meneghello tra la “questione della lingua” e l’etica della (r)esistenza

Il mondo dell’infanzia e la vita di paese  (Libera nos a malo, 1963; Pomo pero, 1974), il secondo conflitto mondiale e la lotta  partigiana sull’Altopiano di Asiago (I piccoli maestri, 1964), l’adesione al fascismo e la riflessione sull’educazione scolastica ai tempi del Ventennio (Fiori italiani, 1976), il periodo in Inghilterra (Il dispatrio, 1993) non rappresentano solo le  tappe più importanti della vicenda personale e intellettuale di Luigi Meneghello (Malo, 16 febbraio 1922 – Thiene, 26 giugno 2007), ma si trasformano in alcune delle più significative opere del Novecento italiano.

E proprio durante il periodo inglese, lo scrittore conduce la sua riflessione sul linguaggio letterario, arrivando a  “trasportare” il dialetto in italiano (Libera nos a malo), e a riprodurre  “il ritmo del parlato”, come se  stesse  “raccontando a voce” le esperienze vissute (I piccoli maestri).

La scelta della chiarezza, ci spiega Meneghello, non è però solo estetica, diventa anche questione morale – di resistenza contro “la retorica, la pomposità, la convenzionalità” – e di  confronto, tra vero e falso. E  in questa indagine, che non è semplicemente  linguistica, il  dialetto  rappresenta la “lingua profonda”,  “nocciolo di materia primordiale”, “groppo di materia”, “per certi versi realtà e per altri versi follia”.

Info

Francesca Caputo insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Milano Bicocca. È tra i più importanti studiosi  di Luigi Meneghello, autrice di numerosi saggi, curatrice della sua opera (prima per i “Classici Contemporanei” Rizzoli – Opere I, 1993; Opere II, 1997 -, poi per i “Meridiani” Mondadori – Opere scelte, 2007), di volumi collettivi (Per Libera nos a malo. A quarant’anni dal libro di Luigi Meneghello, Terraferma 2005; Tra le parole della «Virtù senza nome». La ricerca di Luigi Meneghello, Interlinea 2005; Maestria e apprendistato. Per i cinquant’anni dei Piccoli maestri di Luigi Meneghello, Interlinea 2017), del carteggio fra Meneghello e L. Magagnato («Ma la conversazione più importante è quella con te», con E. Napione, Cierre 2018), dell’inedito Spor (Bur, 2022). E’ presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Luigi Meneghello.

Alba de Céspedes, la voce ribelle della letteratura italiana

Nel 1982 Milena Milani, a proposito  di Alba de Céspedes, scrisse che “la funzione della letteratura, della cultura è anche quella di essere utile alla collettività, di inserirsi nella vita, di far meditare, di aiutare”. E proprio all’interno di queste parole possiamo inquadrare la straordinaria vita e il contributo letterario di Alba de Céspedes (Roma, 11 marzo 1911 – Parigi, 14 novembre 1997), una delle personalità femminili più significative del Novecento letterario,  non solo in Italia  ma nell’intero panorama europeo.

Le disuguaglianze sociali ed economiche, la solitudine e l’isolamento, la scrittura, il senso di alienazione e la ricerca dell’identità, il sogno d’amore e la crisi dei valori: questi alcuni dei temi centrali magistralmente esplorati nelle sue opere  (Nessuno torna indietro, 1938;  Fuga, 1940; Dalla parte di lei, 1949; Quaderno proibito 1952; Invito a pranzo, 1955; Prima e dopo, 1955; Il rimorso, 1963; La bambolona, 1967;  Chansons des filles de mai, 1968; Sans autre lieu que la nuit, 1973: questi ultimi autotradotti nel 1970 e nel 1976) che attraversano 40 anni della storia italiana.

La lotta di Alba de Céspedes per la parità dei diritti e la libertà, radicata nella sua esperienza come partigiana durante la Seconda guerra mondiale, ha trovato espressione non solo nei suoi romanzi, ma anche sulle pagine di “Mercurio,” la rivista che ha diretto dal 1944 al 1948. Questa rivista ha svolto un ruolo cruciale nel dibattito intellettuale e culturale dell’epoca, contribuendo alla causa dell’emancipazione femminile.

Per questo, l’importante eredità lasciata da Alba de Céspedes, così come quella di molte altre intellettuali italiane, continua a risuonare in modo significativo ancora oggi. E ci invita a riflettere sul potere della scrittura e sulla sua funzione etica, capace di indagare sulle complesse dinamiche umane e di indicarci la via verso un futuro più equo e giusto.

Info

Sabina Ciminari, dottoressa di ricerca all’Università di Roma La Sapienza e all’Université Paris Nanterre, è Maîtresse de Conférences all’Université Paul-Valéry Montpellier 3, dove attualmente dirige il Dipartimento di Studi italiani. Contemporaneista di formazione, dedica le sue ricerche alle scritture delle donne (in particolare Sibilla Aleramo, Alba de Céspedes, Gianna Manzini, Milena Milani, Elsa Morante), con un’attenzione alla loro storia editoriale, alle corrispondenze e agli archivi. Si è occupata anche di narrativa italiana degli anni Ottanta, di autotraduzione (a partire dal caso di Alba de Céspedes) e, come italianista in Francia, ha organizzato seminari e giornate di studio dedicate al tema della didattica della lingua e della cultura italiana all’estero oltre che ad alcuni degli autori italiani più tradotti e conosciuti in Francia (da Dante Alighieri a Antonio Tabucchi, passando per Italo Calvino). Fra i suoi ultimi lavori: la monografia Lettere all’editore. Alba de Céspedes e Gianna Manzini, autrici Mondadori (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2021) e la curatela, con Silvia Contarini, del volume Alba de Céspedes e gli anni francesi (Franco Cesati, 2023).

Antonio Pizzuto, il «Joyce italiano»

Era il 1964 quando Gianfranco Contini, sulle pagine del “Corriere della Sera”, consacrava pubblicamente Antonio Pizzuto, «traumaticamente perfetto, rotondo, catafratto in una maturità che è magistero». Da Roberto Lerici erano state pubblicate Paginette, che insieme a Sinfonia (1966) e Testamento (1969) avviava la scrittura dell’ex questore di Polizia verso la piena maturità di quell’operazione letteraria di cui la “sintassi narrativa”  rappresentava la più alta espressione.

Vice-commissario della futura Interpol, Antonio Pizzuto (Palermo, 14 maggio 1893 – 23 novembre 1976), già autore di Il ponte di Avignone (1938), solo dopo il pensionamento si dedicò totalmente alla scrittura (Signorina Rosina 1956, 1959; Si riparano bambole, 1960; Ravenna 1962; Il triciclo, 1962), arrivando a essere proposto da Cesare Brandi al Premio Strega del 1963.

Avviandosi verso un’astrazione linguistica sempre più complessa e radicale, la scrittura di questo “Joyce italiano”, come lo definì il suo amico Contini, non è altro che la formalizzazione di una puntuale visione filosofica, anti-storicistica, della realtà: «lo spirito è un fatto, la materia è un’ipotesi», spiegherà più volte lo scrittore. Ecco allora che il linguaggio di Pizzuto – scrive Gualberto Alvino, il suo più importante studioso contemporaneo – raffigura una «diretta, necessaria emanazione di un preciso credo teoretico soggiacente, conditio sine qua non per la corretta interpretazione del testo: l’impossibilità di penetrare l’essenza del reale e di conoscere le cause efficienti dei fenomeni».

Troppo a lungo dimenticato dall’editoria e dai lettori, ma studiato e apprezzato da critici e studiosi, Antonio Pizzuto ha lasciato un’impronta indelebile nel Novecento italiano e la sua eredità rimane un contributo significativo alla letteratura italiana, anche dei nostri giorni.

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Critico e scrittore, Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana, da Consolo a Bufalino, da Sinigaglia a D’Arrigo, da Balestrini a Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Ultime e Penultime (Cronopio, 2001), Si riparano bambole (Sellerio, 2001; Bompiani, 2010), Giunte e Caldaie (Fermenti, 2008), Pagelle (Polistampa, 2010), nonché i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini (tutti editi dalla Polistampa). Fra i suoi lavori più recenti la curatela di Sconnessioni di Nanni Balestrini (Fermenti, 2008), Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (Fermenti, 2009), «Come per una congiura». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Sandro Sinigaglia (Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2015, 2022), Per Giovanni Nencioni, con Luca Serianni, Salvatore C. Sgroi e Pietro Trifone (Fermenti, 2017), i romanzi Là comincia il Messico (Polistampa, 2008), Geco (Fermenti, 2017) e Pelle di tamburo (Caffèorchidea, 2021), le raccolte di saggi critici Scritti diversi e dispersi (Fermenti, 2015), Dinosauri e formiche. Schegge di critica militante (Novecento, 2018), il monologo teatrale La Perfetta (La Mongolfiera, 2021) e le sillogi poetiche Rethorica novissima (Il ramo e la foglia, 2021) e Sala da musica (Il Convivio, 2022). Suoi scritti poetici, narrativi, critici e filologici appaiono regolarmente in riviste accademiche e militanti, di alcune delle quali è redattore e referente scientifico.

Collabora stabilmente con l’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) con recensioni e rubriche.

La forza misteriosa della Ministerialità e la letteratura satirica di Augusto Frassineti

“Era uno scrittore che un tempo si sarebbe definito ‘attico’, asciutto, schietto, di rara ma schiva eleganza linguistica, di grande pulitezza”, scriveva Giorgio Manganelli a proposito dell’amico e traduttore Augusto Frassineti (Faenza, 30 novembre 1911 – Roma, 31 marzo 1985). E Misteri dei ministeri, il libro di una vita, insieme trattato e narrazione, “prende di petto il nodo più doloroso che impastoia la vita italiana, il male più incancrenito di cui nessun cambiamento di regime o d’istituti è riuscito a liberarci: l’assurdità burocratica”, spiegava Italo Calvino nell’edizione einaudiana del 1973.

Tra il gusto della satira e dell’ironia, e attraverso l’espediente dell’apocrifo, Augusto Frassineti ci accompagna così in un viaggio dal sapore kafkiano, mostrandoci le inefficienze, le contraddizioni e le stranezze di questo sistema complesso e irrazionale che è la ministerialità. E che ancora ancora oggi appare, come ebbe a dire Giorgio Manganelli, “divinità senza volto e senza occhi”

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Andrea Gialloreto nel 2022 ha curato, per Einaudi, la nuova edizione di Misteri dei Ministeri.

Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea e Letterature comparate presso l’Università di Chieti-Pescara. Fa parte del comitato direttivo della rivista «Studi Medievali e Moderni» ed è condirettore delle collane «Scrittojo» e «Le Orbite» per Prospero Editore. Si occupa di narrativa novecentesca, con particolare riguardo per autori appartenenti alla terza generazione (Quarantotti Gambini, Dessí) e per lo sperimentalismo tra anni Sessanta e Settanta. Ha pubblicato le monografie La parola trasparente. Il “sillabario” narrativo di Goffredo Parise (Bulzoni, 2006), L’esilio e l’attesa. Scritture del dispatrio da Fausta Cialente a Luigi Meneghello (Carabba, 2011), I cantieri dello sperimentalismo. Wilcock, Manganelli, Gramigna (Jaca Book, 2013) oltre a numerosi saggi su scrittori e poeti dell’Otto-Novecento (tra i quali Vigolo, Campana, Bigongiari, Lunetta, Bonaviri, Ceronetti, Rugarli, Morazzoni).

Giuseppe Marotta e la sua Napoli, “il libro di tutte le favole”

“Leggendolo, si aveva l’impressione che scrivesse di getto, con estrema facilità d’improvvisazione. Invece aveva il lavoro difficile, lento e faticoso”, scrive Indro Montanelli nella sua Prefazione a Nulla di serio (1946), riferendosi a quello “scrittore straordinario” che è Giuseppe Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 – Napoli, 10 ottobre 1963).

Sceneggiatore, giornalista, paroliere e critico cinematografico, Giuseppe Marotta è l’autore di uno dei libri più famosi del secondo dopoguerra, L’oro di Napoli (1947), Premio Bagutta nel 1954, e che Vittorio De Sica portò sul grande schermo.

Napoli e Milano nella sua prosa non sono solo i principali palcoscenici narrativi, ma innanzitutto rappresentano luoghi dell’anima: da una parte  Napoli,  “il mondo dei vicoli e della povera gente” (L’oro di Napoli, San Gennaro non dice mai no, Gli alunni del sole, Gli alunni del tempo); dall’altra quella Milano (A Milano non fa freddo, Mal di galleria,  Le milanesi), che è il simbolo del miracolo economico, la città del “professionalismo giornalistico e letterario” e che, nel dopoguerra, accoglie gli emigranti del sud Italia, alla ricerca di un riscatto, sociale ed economico, a un’esistenza fatta di stenti.

E quella che ci racconta Marotta, tra umorismo e divertita – a volte malinconica – partecipazione, è la vita della sua gente, che si aggira tra quei vicoli bui e umidi dei bassi napoletani: eccoli lì, con il loro parlare in dialetto, i ladri,  gli artigiani, i mendicanti, gli avvocati, i guappi, gli jettatori, i nobili decaduti… Sono loro, teatranti inconsapevoli, i protagonisti di una favola moderna, dolce e amara, tragica e comica, perché Napoli, “ è stata, resta e sarà il libro di tutte le favole”.

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Cristiana Lardo è professoressa associata di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Docente dal 1995, tiene corsi di Letteratura italiana e laboratori di scrittura. Ha pubblicato monografie scientifiche su Dino Buzzati, Ludovico Ariosto e molti saggi su vari autori italiani. Ha inoltre tradotto autori della Letteratura francese per importanti case editrici ed è autrice di racconti e di due romanzi.

Pier Vittorio Tondelli, il cantore della contemporaneità

“Scrivere è il modo di fare musica, di esprimere quell’anelito, quell’ansia di assoluto che è la caratteristica di ogni arte”, leggiamo in un’intervista del 1985. Ed è proprio all’interno di questa spiegazione che possiamo inquadrare l’articolato e complesso universo letterario e linguistico di Pier Vittorio Tondelli (Correggio, 14 settembre 1955 – Correggio, 16 dicembre 1991). Un universo che ci fa scoprire la provincia emiliana con i suoi Silvio D’Arzo e Antonio Delfini, l’America di Jack Kerouac, ma anche le abitudini e i miti degli anni Ottanta, con la loro cultura pop, il linguaggio dei fumetti e della televisione, la musica rock.

Da attento osservatore, Tondelli ci regala così  “un ritratto delle abitudini, delle follie dell’Italia di oggi” (Rimini, 1985). Ma, nello stesso tempo, le sue “occasioni” narrative rappresentano fasi diverse di una costante riflessione sulla scrittura e  sul ruolo dello scrittore, che passa anche attraverso le esperienze editoriali di “Under 25” e di “Mouse to Mouse”.

“Lo stile” spiega Tondelli, “è l’aspetto primario di ogni testo”, ed ecco allora i suoi modelli, i suoi punti di riferimento da cui partire: le indicazioni di una nuova scrittura di Alberto Arbasino; il linguaggio emotivo di Louis-Ferdinand Céline e quello parlato di Gianni Celati, che ritroviamo nei  giovani emarginati, nei drogati e negli omosessuali  di Altri libertini (1980) e di Pao Pao (1982);  fino ad arrivare a una letteratura più sentimentale, più intima (Biglietti agli amici, 1986) che raggiunge il suo punto più alto nella “cantata sentimentale” di  Camere separate (1989): storia d’amore, di lutto, di separazione, ma anche riflessione (ecco le letture in questo periodo di Roland Barthes, Peter Handke, Ingeborg Backmann)  “sul senso della scrittura, dell’amore, del crescere, del perdere”.

“La sua diversità, quello che lo distingue dagli amici del paese in cui è nato, non è tanto il fatto di non avere un lavoro, né una casa, né un compagno, né figli, ma proprio il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quegli che gli altri sono ben contenti di tacere. La sua sessualità, la sua sentimentalità si giocano non con altre persone, come lui ha sempre creduto, finendo ogni volta con il rompersi la testa, ma proprio nell’elaborazione costante, nel corpo a corpo, con un testo che ancora non c’è”.

Da Camere separate, Bompiani 2010.

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Roberto Carnero insegna Letteratura italiana all’Università di Bologna, presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Campus di Forlì). È critico letterario ed editorialista per varie testate, tra cui “Avvenire”, “Il Piccolo”, “Famiglia Cristiana”. Tra i suoi ultimi libri, pubblicati da Bompiani: Pasolini. Morire per le idee; Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla Generazione Z. Sempre per Bompiani ha curato edizioni di opere di Guido Gozzano e Silvio D’Arzo. Presso Treccani – Giunti TVP è autore, con Giuseppe Iannaccone, di un fortunato manuale di letteratura italiana con antologia di testi per il triennio delle scuole superiori, la cui nuova editio maior si intitola Il magnifico viaggio.

È autore de Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani 2018).

Maurizio De Benedictis, un intellettuale anomalo dei nostri tempi

Saggista poliedrico, narratore, professore universitario, Maurizio De Benedictis (Roma, 2 luglio 1951 – Roma, 23 agosto 2021) è autore di importanti saggi dedicati alla storia della letteratura e alla critica cinematografica (tra cui L’immagine italiana dal 1945 a oggi, 2000, Il cinema americano, 2005; Acting. Il cinema dalla parte degli attori, 2005; Da Paisà a Salò. Parabole del grande cinema italiano; i quattro volumi di Cinemondo; Visioni italiane 2021); e a registi di fama internazionale (Pasolini, Fellini, Ejzenstejn, Šklovskij, Pudovkin, solo per citarne alcuni).

L’esperienza del sapere  rappresenta con De Benedictis un preciso modo di essere e di vivere, “problematico”,  perché problematica è la dimensione del conoscere e dell’esistere. Il sentimento del “tragico” si pone così come chiave di lettura per indagare nodi specifici: il problema del male in Carlo Emilio Gadda (1991); il tema “della vita e del sacrificio” in Pasolini. La croce alla rovescia (1995), il concetto di  finzione in Giorgio Manganelli (1998), “l’individuazione di linee consolidanti e punti di rottura” in Più luce! Immagini di registi, dive e rivoluzioni (1999); il viaggio di tipo dantesco in Linguaggi dell’aldilà. Fellini e Pasolini  (2000). Ed ecco, anche, la sua visione della realtà attraverso le autobiografie di grandi artisti del cinema (Josef von Sternberg,  King Vidor, Bette Davis).

Tra i suoi romanzi  (L’estate di Greta Garbo, 2006; Amore e fame d’aria, 2020) e racconti  (Ogni pensiero vola, 2009) si ricorda Un filo di corallo rosso (2018), in cui centrale è la riflessione sul male, questa volta in senso assoluto – nella dimensione emblematica dell’Olocausto nazista –, con i suoi demoni, i suoi angeli, i suoi innocenti.

La scrittura diventa con De Benedictis la trama per delineare la complessità del gioco intellettuale, e soprattutto della vita; un “gioco” in cui trovano posto i suoi “maledetti&anomali” Jean Genet (2017), Pier Paolo Pasolini (2017) e Yukio Mishima (2023) postumo, 3 autori “espressivamente e biograficamente trasgressivi”, accomunati da  un erotismo assoluto in conflitto aperto con le leggi e le norme della società per affermare la vocazione alle sofferenze e al martirio del desiderio che diviene scrittura.

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Gius Gargiulo è ricercatore, professore universitario, saggista, giornalista e drammaturgo. Si occupa di storia delle idee del Rinascimento e dell’Illuminismo, di analisi del racconto cinematografico e dei media, di Italian Studies e di semiotica del marketing all’Université Paris-Nanterre e svolge ricerche in narratologia cognitiva assistita da Intelligenza Artificiale presso il laboratorio MoDyCo/CNRS della stessa Università parigina. Gargiulo è critico cinematografico e letterario della rivista parigina Focus In. Tra le sue pubblicazioni: Passioni e teatri di Casanova, Fiesole, Cadmo, 2002 ; Le Polémoscope de Casanova (traduzione italiana, introduzione ed edizione critica) Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003;  Terrorismes : L’Italie et l’Allemagne à l’épreuve des années de plomb (1970-1980), (con Otmar Seul), Paris, Houdiard 2008; Transductions: du western américain au western italien, Paris, Attal 2011; Codes narratifs des sagas, Paris, Attal, 2013; Footsophie, Paris Houdiard 2014, Naples ville travestie entre Pasolini et Patroni Griffi, Paris, Houdiard 2015; Hugo Pratt en Argentine, Paris, Firenze, Classi, 2017; Pétrarque dans le night-club de Battisti-Mogol, Paris, Florence, Classi, 2017; Cravates illustrées, Paris Houdiard, 2019; Frontières et Clôtures du Western, Paris, Houdiard, 2020; Assassin’s Creed II, Gaming and Learning History as Immersion in Italian Renaissance, «Annali dell’Istituto Armando Curcio», III», 2021; Le Héros de Capri (fiction bilingue Italiano-Francese), Paris, Houdiard, 2021; Un talk-show avec la fille et le neveu de Giacomo Casanova (fiction bilingue Italiano-Francese) Paris, Houdiard, 2021, Certi film, Paris, Florence Classi, 2022. 

Per ulteriori informazioni sui libri di Gius Gargiulo e per vedere i suoi booktrailer sul sito di Amazon.fr [https://www.amazon.fr/Gius-Gargiulo/e/B004N4QFI0/ref=aufs_dp_fta_dsk]

Giovanni Comisso, “vagabondo fra il romanzo e le scoperte dei paesaggi” *

“Affonda le mani nella vita, caro Nico, prima che tardi anni te lo impediscano”, scriveva nell’agosto 1968 Giovanni Comisso, ormai gravemente malato, al suo amico e biografo, Nico Naldini.

Viaggiatore di mare e di terra, autore di importanti libri di viaggio dedicati a Parigi, all’Italia e all’Oriente, Premio Strega nel 1955 con Un gatto attraversa la strada, Giovanni Comisso (Treviso, 3 ottobre 1895 – Treviso, 21 gennaio 1969) ha consegnato alla letteratura italiana diversi capolavori contemporanei (tra cui Il porto dell’amore 1924; Giorni di guerra 1930; Gioventù che muore 1949; La mia casa di campagna 1958). Libri che contengono alcune delle pagine più belle, più intime e personali dell’Italia raccontata tra gli anni del primo conflitto mondiale e le trasformazioni sociali del secondo dopoguerra.

Ma la letteratura di Comisso non può essere intesa semplicemente come il racconto della storia di quegli anni; con lui la scrittura è qualcosa che ha a che fare, profondamente, “religiosamente”, visceralmente con l’esistenza, il tempo, la disperazione, la morte:

“Ò due malinconie grandissime: 1° Il pensiero del tempo che passa senza averlo vissuto. II° il pensiero che la mia speranza d’arte non sia che una chimera”.

La scrittura comissiana rappresenta allora, come scriverebbe Carlo Bo, una precisa “condizione” dell’esistere, l’unica possibilità che abbiamo per “rivivere” e inebriarci di questa meravigliosa avventura che è la vita. Vita giocata, questa volta, sul piano dell’eternità.

Orio Vergani, Misure del tempo. Diario, p. 337, Baldini&Castoldi 2003

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Giacomo Carlesso, dottorando di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi su Giovanni Comisso, è autore di diverse pubblicazioni: Goffredo Parise. Un invito alla lettura, Udine, Digressioni editore 2022; Il confine tra Eros e Thanatos in Giovanni Comisso e Dino Buzzati, in Buzzati e il confine, a cura di John Butcher e Marco Perale, Berlino, Peter Lang 2021; Tra fiction e odeporica. “Viaggio in USA e ritorno” di Giovanni Comisso in STUDI NOVECENTESCHI 2021; Giovanni Comisso a Fiume. Da “Il porto dell’amore” all’epistolario privato, in Visioni d’Istria, Fiume, Dalmazia nella letteratura italiana, Fabrizio Serra Editore, 2020.

Fa parte del comitato di redazione della rivista internazionale di studi «Ermeneutica Letteraria».

Milena Milani, scrittrice controcorrente alla ricerca della verità

“La funzione della letteratura, della cultura è anche quella di essere utile alla collettività, di inserirsi nella vita, di far meditare, di aiutare”, scriveva l’autrice in uno dei suoi pamphlet di Umori e amori (1982).

E proprio nella funzione di utilità riconosciuto alla cultura possiamo inquadrare la lunga parabola esistenziale di Milena Milani (Savona, 24 dicembre 1917 – Savona, 9 luglio 2013), una delle personalità femminili più significative nel secondo Novecento italiano, sia in ambito artistico che letterario.

Artista, poetessa, giornalista e traduttrice; animatrice e paladina, attraverso la scrittura letteraria, di quell’emancipazione femminile che trova nella Storia di Anna Drei (1947) uno dei suoi romanzi-simbolo negli anni in cui “il femminismo, le sue rivendicazioni erano di là da venire”. E di nuovo autrice, nel 1964, di quel romanzo che divenne subito un caso letterario per essere stato sequestrato, in quanto ritenuto “gravemente offensivo del sentimento comune del pudore”.

Scrittrice solitaria e anticonformista di romanzi, racconti, saggi e pamphlet, il nome di Milena Milani, troppo a lungo dimenticato, è così il simbolo della libertà – libertà dagli schemi, dalle convenzioni, libertà anche e soprattutto di essere se stessi –, ma diventa anche, come la protagonista Giulio, sinonimo della ricerca di verità e “anch’io”, conclude così la sua Prefazione de La ragazza di nome Giulio nell’edizione del 1978, “come lei, come tutte le donne e gli uomini della terra, non smetto di cercarla”.

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Alessandra Trevisan da anni si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato la monografia «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza (Aracne 2020); si è occupata, tra gli altri, di Gabriele d’Annunzio, Clara Sereni, Adele Cambria, Anna Maria Ortese e Beppe Costa, Lalla Kezich. Dal 2017 collabora alla redazione della rivista «Archivio d’Annunzio» e dal 2018 di «Kepos – Semestrale di letteratura italiana»; è redattrice del lit-blog «Poetarum Silva» ed è co-fondatrice del progetto Le Ortique insieme a Viviana Fiorentino. Da anni si dedica allo studio di Milena Milani, scrittrice a cui ha dedicato molti suoi contributi critici. È curatrice, insieme ad Arianna Ceschin e Ilaria Crotti, di Venezia Novecento. Le voci di Paola Masino e Milena Milani (2020).

Due incontri dedicati “Alla (ri)scoperta del linguaggio letterario”

“Non si è scrittori solo perché si è scelto di dire certe cose, ma perché si è scelto di dirle in un certo modo”, scriveva J.P. Sartre in un suo famoso saggio del 1947.
Durante il nostro viaggio “Alla (ri)scoperta del linguaggio letterario”, Gualberto Alvino ci aiuterà a capire che cos’è la lingua letteraria e in che modo si distingue da quella di uso comune; in che cosa consiste il valore estetico di un testo letterario; che cos’è lo stile, quale il rapporto tra forma e contenuto, tra scrittore e lettore.
Due incontri che ci potranno aiutare a diventare scrittori e lettori più consapevoli, in un percorso affascinante e meraviglioso, ulteriormente arricchito dalla lettura di brani di grandi scrittori della letteratura, non solo italiana.

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Gualberto Alvino. Scrittore e filologo, da anni si occupa di linguaggio letterario ed è autore di importanti saggi di critica testuale e scrittura narrativa. È il principale studioso in Italia di Antonio Pizzuto, della cui Fondazione è consulente scientifico. Collabora con l’Istituto della Enciclopedia Italiana con recensioni e rubriche.

Ercole Patti “alla ricerca della felicità”

“Narratore sempre sospeso tra il gusto della favola e il senso della poesia” (Carlo Bo), Ercole Patti (Catania, 16 febbraio 1903 – Roma, 15 novembre 1976) è uno dei più raffinati scrittori del Novecento italiano. E quello che ci racconta, attraverso l’apparente semplicità di una parola sobria e nello stesso tempo evocativa, è un mondo fatto di “piccoli oggetti inutili”, “insignificanti”, e che sono, loro, la felicità:

“Il ricordo di quelle case di campagna che si confondono nel mio pensiero mi è rimasto nella mente come l’espressione più alta della felicità”.

Catania e Roma nella prosa pattiana non sono solo i principali palcoscenici narrativi (Quartieri alti, Giovannino, Cronache romane, La cugina, Un bellissimo novembre, Graziella, Diario siciliano, Roma dolce e amara…), ma innanzitutto rappresentano luoghi dell’anima: da una parte la Sicilia, il “mondo della nostalgia”; dall’altra, quella “Roma dolce e amara” in cui Ercole Patti “ha fissato un particolare modello di vita”.

Nel ricordo riproposto attraverso l’invenzione letteraria, prendono vita pulsioni giovanili, turbamenti adolescenziali, immagini sensuali, perbenismi borghesi che fanno da protagonisti accanto a quel mondo agreste, siciliano, e di cui, con i suoi profumi e i suoi colori, la parola lirica, intima, ci inebria. Ed ecco, anche, di Roma le osterie, i vicoli, le pensioncine, le case di appuntamento, le signore alle mostre, i cinematografari, le serate ai tabarin e i locali notturni…
È, insomma, il meraviglioso spettacolo della “commedia minima” quello che Ercole Patti ci racconta e di cui “il protagonista è unico, è la vita”.

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Sarah Zappulla Muscarà è filologa, critica letteraria, scrittrice e accademica italiana.
Ha curato, insieme a Enzo Zappulla, Ercole Patti. Tutte le opere (La nave di Teseo, 2019).
Come studiosa, si è occupata di scrittori siciliani di primo piano tra Otto e Novecento (tra cui Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, D’Annunzio, Rosso di SanSecondo, Bonaviri, Borgese, Borgese, Brancati, Patti, Lanza) Numerosi inoltre i suoi contributi anche in campo teatrale e cinematografico.
Già componente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni Pirandelliane, fa parte dei Comitati Nazionali per l’edizione critica delle Opere di Luigi Capuana e Federico De Roberto, del Comitato scientifico della Fondazione Verga, dell’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano, del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, della Fondazione Bonaviri, del Consiglio Direttivo della Società di Storia Patria di Catania. È componente del Comitato Scientifico di importanti riviste nazionali e internazionali.
Nel 1984 ha fondato, insieme a Enzo Zappulla e agli eredi dei protagonisti della cultura isolana, l’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano, con sede a Catania, al fine di recuperare, custodire e promuovere il patrimonio documentario della letteratura e dello spettacolo siciliani.

Salvatore Satta, “il genio della prosa”, e il suo Il giorno del giudizio

Nel 1987 il critico americano George Steiner, in un articolo apparso sul “New Yorker”, definì Il giorno del giudizio “uno dei capolavori della solitudine nella letteratura moderna, se non addirittura di tutti i tempi”. Ne era autore Salvatore Satta (Nuoro, 9 agosto 1902 – Roma, 19 aprile 1975), figura eminente del mondo giuridico italiano e tra i più straordinari narratori del secondo Novecento.

Il romanzo fu pubblicato postumo, prima dalla padovana Cedam (1977) e poi da Adelphi (1979), incontrando infine il favore di un pubblico largo e internazionale: 200.000 copie vendute, traduzioni in 17 lingue.

In apparenza la trama è semplice: a distanza di anni, ormai lontano dalla sua Nuoro per “cercare pane migliore di quello di grano”, l’io narrante – dietro cui si nasconde il “giudizio” dello scrittore – rievoca la sua gente, gli abitanti della Nuoro d’inizio secolo  Sono loro i protagonisti di una storia corale, che vengono nuovamente in vita attraverso la memoria, colti nei loro dissapori, nelle loro miserie, se non addirittura nel loro astio reciproco e costitutivo.

Basta inoltrarsi tra le pagine, tuttavia, per capire che Il giorno del giudizio è molto di più. È una riflessione sulla caducità dell’essere, del vivere e del morire, e ci riguarda tutti da vicino: “per conoscersi – è scritto nelle battute finali del romanzo – bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”.

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Bruno Pischedda è scrittore, saggista e docente universitario. Ha partecipato al Premio Strega nel 1996 con Com’è grande la città; si è occupato di critica editoriale, del rapporto tra giornalismo e letteratura, e di romanzi di intrattenimento. Tante le sue pubblicazioni dedicate a scrittori del Novecento italiano; tra queste, vincitrici di premi sono L’idioma molesto (Premio Viareggio 2016, per la saggistica) e Satta, il capolavoro infinito (Premio internazionale Forum Traiani, 2022). Da pochi giorni è in libreria il suo ultimo lavoro: La competizione editoriale. Marchi e collane di vasto pubblico nell’Italia contemporanea.

Fausta Cialente, l’impegno sociale e politico attraverso la parola letteraria

Fausta Cialente (Cagliari il 29 novembre 1898 – Pangbourne, 12 marzo 1994), punto di riferimento e animatrice del dibattito culturale intorno ai temi della disuguaglianza sociale e della parità dei diritti, è una delle più autorevoli e prestigiose figure femminili del Novecento italiano. Scrittrice, giornalista e traduttrice, soprattutto Fausta Cialente ha contribuito alla formazione della coscienza femminista in Italia, entrando a pieno diritto in quel solco europeo contrassegnato dall’impegno sociale e politico di tante intellettuali che, fin dall’Ottocento, si erano battute per il riconoscimento del ruolo sociale della donna. Premio Strega a 78 anni con Le quattro ragazze Wieselberger (1976), la vita privata di Fausta Cialente è contrassegnata da continui viaggi e spostamenti: prima al seguito del padre, ufficiale militare; e poi al seguito del marito, il musicista Enrico Terni, con il quale trascorse un lungo periodo ad Alessandria d’Egitto e poi al Cairo. Questo dato biografico, imprescindibile per meglio inquadrare la sua evoluzione sia in termini etici,  sia sociali che di scrittura, ha forgiato uno sguardo capace di (ac)cogliere le contraddizioni e il male della realtà circostante, segnando una nuova fase anche nella sua letteratura, che diventa così cosmopolita e multietnica.

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Francesca Rubini è autrice di una monografia su Cialente (Fausta Cialente. La memoria e il romanzo, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2019) e saggi su Pavese, Calvino e Banti. Interessata alla valorizzazione delle fonti letterarie, nel 2015 ha conseguito il titolo di archivista presso l’Archivio di Stato di Roma. Collabora con il Laboratorio Calvino (Sapienza Università di Roma).

Luciano Bianciardi, uno scomodo intellettuale di provincia

Probabilmente sarebbe rimasto un intellettuale di provincia se il 4 maggio 1954 non ci fosse stata l’esplosione della miniera di Ribolla, tragedia che avrebbe segnato per sempre le sorti della comunità dei minatori della Maremma e quelle, personali, di Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 – Milano, 14 novembre 1971).                                                                                                           

E probabilmente questo professore di liceo –  che a Grosseto dirigeva la Biblioteca Chelliana, organizzava cineforum e conferenze, conduceva, insieme all’amico Carlo Cassola, un’inchiesta sui minatori maremmani e nei paesi  della zona andava a portare i libri con il suo Bibliobus – non avrebbe mai potuto immaginare che, a distanza di anni, avrebbe raggiunto la notorietà con uno dei libri più significativi del secondo Novecento italiano.

Poi lo scoppio di grisou al pozzo Camorra, le 43 morti, l’assoluzione della Montecatini. Luciano   Bianciardi non può rimanere fermo a guardare: ed ecco la sua partenza per Milano, simbolo della trasformazione culturale, del boom economico, e dove si muovono i nuovi attori del mondo del lavoro: le segretarie asessuate, i ragionieri, i grafici pubblicitari; ma è anche la città della Feltrinelli, dei frenetici ritmi di produzione, delle ore passate a tradurre, e poi…  del “torracchione”.

È la Milano dei cinema, dei teatri, della mondanità, dove però si spegne ogni tentativo di ribellione, che toglie ogni entusiasmo e in cui diventa “la vita agra”.

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Nata a Grosseto e laureata in lettere moderne alla Sapienza di Roma, dal 1975 Lucia Matergi ha insegnato italiano e latino in vari istituti. Dagli anni ’80 autrice di progetti legati alla multiculturalità, formatrice di teatro scolastico per la Regione Toscana, collaboratrice di “Scespir”, rivista della Rassegna Nazionale del Teatro Scolastico, fonda nel 1997 la Rassegna Provinciale del Teatro della Scuola- Premio Città di Grosseto, riferimento regionale per l’inclusione e il contrasto alla dispersione scolastica. Si mette in politica attiva nel 2001, svolgendo ruoli direzionali nei DS e poi nel PD, è vicesindaco di Grosseto dal 2006 al 2010 e consigliera regionale dal 2010 al 2015. Parallelamente si occupa della Fondazione Luciano Bianciardi, curandone istituzionalmente la ricostituzione, assumendo anche la carica di presidente pro tempore nel 2006. Nel 2012 fonda l’Istituto Gramsci di Grosseto di cui assume la presidenza. Formatrice per docenti su didattica e drammatizzazione, collaboratrice della rivista “La Ricerca” ed. Loescher, nel 2016 fonda l’Associazione Culturale “Accademia delle Belle Storie”, specializzata nella progettazione e realizzazione di laboratori creativi sulla narrazione attraverso il linguaggio teatrale. Come esperta di letteratura, dal 2018 svolge attività di reading letterari. Nel 2018 è chiamata a sostenere il ruolo di Direttrice scientifica della Fondazione Luciano Bianciardi e da allora svolge all’interno di tale associazione il lavoro di organizzazione e ricerca.

Paolo Volponi, un intellettuale rinascimentale del Novecento

La traiettoria biografica e letteraria di Paolo Volponi (Urbino, 6 febbraio 1924 – Ancona, 23 agosto 1994) coincide con gli snodi storici decisivi del nostro Paese e percorre gli anni che vanno dal Fascismo fino al crollo del muro di Berlino. Paolo Volponi non è stato solo uno scrittore, ma anche un manager, un collezionista d’arte e uomo politico.

La sua produzione narrativa può essere letta come il lento, ma inesorabile evolversi di un Paese che da agricolo si trasforma in industriale con tutte le conseguenti aporie e contraddizioni del caso, fino ad arrivare a un capitalismo di genere finanziario, in cui l’industria e gli operai sembrano sparire per lasciare spazio a speculazioni e a nuovi tipi di sfruttamento.

In Paolo Volponi la cultura umanistica e la cultura tecnico-scientifica si fondono in un rinnovato universalismo rinascimentale, che poi è specchio della sua città d’origine, Urbino, gioiello urbano di cui lo scrittore sembra essere degno figlio ed erede.

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Scopriremo Paolo Volponi con Piergiorgio Mori, attualmente insegnante di Italiano presso il liceo George Baritiu di Cluj Napoca su incarico del Ministero degli Esteri italiano. È autore del saggio “Scrittori nel boom. Il romanzo industriale negli anni del miracolo italiano” ed è uno degli autori del volume “Italian Industrial Literature and Film. Perspectives on the Representation of Postwar Labor and film” uscito nel 2021 per i tipi della Peter Lang Publishing.

Il caso editoriale Dante Arfelli e i suoi personaggi “superflui”

Dante Arfelli (Bertinoro, 5 marzo 1921 – Ravenna, 9 dicembre 1995), professore di scuola della provincia romagnola e Premio Venezia (1949) con I superflui, divenne in breve tempo protagonista della scena letteraria internazionale, e il romanzo vincitore scalò le classifiche dell’immenso mercato editoriale statunitense.
Eppure su questo scrittore, schivo e appartato, da troppo tempo si abbatte come una condanna implacabile, con un torto imperdonabile, il silenzio dell’editoria italiana. E in effetti è proprio il silenzio ciò che contraddistingue Dante Arfelli, scrittore solitario che dà voce e rende dignità a quegli anti-eroi che vivono lontani dai grandi riflettori della Storia. Nell’Italia del dopoguerra sempre più sedotta dallo scintillio degli oggetti di massa, ben diversa è l’esistenza a margine di questi personaggi, che accettano su di sé il sapore amaro della povertà, della malattia, del fallimento.
È una “poetica della disillusione” che attanaglia lo stesso Arfelli, sempre più isolato e preda di quel male oscuro che lo avrebbe portato a trascorrere gli ultimi giorni di vita negli ambienti sereni e silenziosi di quella casa di riposo di Ravenna, dove si sarebbe spento a 74 anni.

“Però Luca sentiva che c’era qualcosa che lo spingeva via e neppure lui sapeva bene che cosa fosse: forse la noia degli anni trascorsi sempre nello stesso luogo. Così partiva, pur senza farsi illusioni”

Da “I Superflui

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Marco Sangiorgi ha insegnato materie letterarie in istituti d’istruzione secondaria delle province di Treviso e di Ravenna. Si occupa di letteratura e critica letteraria; suoi saggi critici sono apparsi su diverse riviste specializzate. Collabora con le Edizioni del bradipo, che ha contribuito a fondare nel 1989.Cura e organizza la rassegna culturale “Caffè Letterario” di Lugo, attiva fin dal 2005. Ha pubblicato: Il giallo italiano come nuovo romanzo sociale (Ravenna, Longo, 2004); L’allodola del mio villaggio. Didattica della poesia e della lirica haiku (Ravenna, D. Montanari, 2006); Pare…letteratura. Neo-italiano, blog, paraletteratura e altre forme selvagge di comunicazione (Ravenna, Longo, 2008); Giovani scrittori a Cesenatico. Arfelli, Casali, Montesanto, Panunzio (Ravenna, Longo, 2008).

Guido Morselli, il genio segreto del Novecento italiano

Su Guido Morselli (Bologna, 15 agosto 1912 – Varese, 31 luglio 1973), lo scrittore incompreso e dimenticato, grava il peso del “gran rifiuto” editoriale. Filosofo solitario, scrittore-saggista, ecologista ante litteram, è un unicum nella letteratura italiana del Novecento. Il suo è un viaggio, tra le pagine della storia, della filosofia e della scrittura, alla continua ricerca di un senso all’esistere. Guido Morselli ha fatto della letteratura un’esperienza di vita e la vita, attraverso il piano della realtà e della finzione narrativa, viene presentata e colta nei suoi aspetti più nascosti. Ecco allora affiorare, nei suoi romanzi, il mondo della chiesa, il comunismo, gli amori e la morte, il ventaglio dei possibili, la storia e il suo contrario, il suicidio. Fino a immaginare la dissoluzione del genere umano in Dissipatio H.G., il suo capolavoro. Pochi mesi dopo la stesura di Dissipatio H.G., Guido Morselli scelse quel gesto finale, quel colpo di pistola, la ragazza dall’occhio nero, che avrebbe portato questo intellettuale a entrare da genio postumo e incompreso nel panorama della letteratura novecentesca.

“Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato” (Diari, XIII, 6.11.1959)

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Linda Terziroli si è laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano, con una tesi dedicata al tema dell’amore e della morte nell’opera di Guido Morselli. Ha fondato, nel 2008, insieme al poeta e scrittore Silvio Raffo, il Premio letterario Guido Morselli e ha ideato la mostra permanente all’interno della Casina Rosa, dimora dello scrittore, a Gavirate. Curatrice dei volumi Lettere ritrovate (NEM, 2009), Guido Morselli. Una rivolta e altri scritti 1932-1966 (Bietti, 2012), Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Macchione, 2016), ha scritto Un pacchetto di Gauloises. Una biografia di Guido Morselli (2019, Castelvecchi) si è occupata dello scrittore in diversi saggi e articoli. Ha collaborato con “La Provincia di Varese” e con “Lombardia Nord Ovest”, “Linkiesta”, “L’Intellettuale dissidente”, “Dissipatio”. Attualmente collabora con Pangea.news.

Tommaso Landolfi. Risvolto bianco per desiderio dell’autore

Tommaso Landolfi (Pico, 9 agosto 1908 – Ronciglone, 8 luglio 1979), intellettuale aristocratico ed elitario, è sicuramente una delle gemme preziose della letteratura del Nocevento italiano.

Ben lontana dai propositi ideologici e politici della narrativa neorealista, la sua scrittura, ora arcaica e desueta, ora alta e raffinata, si innalza verso il mondo dell’alterità e del “fantastico”. Ma il tema del fantastico e del tenebroso, dell’orrido e dell’irrazionale, non è fine a se stesso, diventa semmai una precisa modalità espressiva attraverso cui Landolfi mostra la realtà al di là della sua apparenza, al di là della sua ordinarietà. Ecco allora svelarsi una sorta di lucido e disperato cinismo intellettuale: la scrittura landolfiana non vuole essere consolatoria né offrire vie di fuga. È un’apertura, una finestra spalancata su quell’ “ignoto”, su quell’ “imponderabile” a cui il lettore è invitato ad affacciarsi. E che subito dopo viene richiusa. Lasciando così in bilico, sull’orlo del precipizio, domande che rimarranno senza risposta.

“In ogni caso stiano, i lettori, a quanto loro si comunica, e non cerchino di penetrare le intenzioni dell’autore, sovente a lui stesso oscure”

Da: “Questioni d’orientamento”, in Tommaso, Landolfi, Le più belle pagine, Adelphi 2001

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Giovanni Maccari, scrittore e critico letterario, ha curato per la casa editrice Adelphi la pubblicazione delle opere di Tommaso Landolfi. È autore di racconti e di saggi su scrittori italiani, tra cui Giuseppe Pontiggia e Guido Piovene. Si occupa di letteratura russa: ha curato il volumetto La lettura – Kaštanka (traduzione di Tommaso Landolfi, Adelphi, 2012) di Anton Cechov, e l’edizione del racconto Nemici (traduzione di Leone Ginzburg), per l’editore Quodlibet.  È autore dei romanzi Gli occhiali sul naso. Vita romanzesca di Isaak Babel’ e dei suoi anni tempestosi (Sellerio 2011); e Vita di Lidia Sobakevic (Pendragon 2015).

Paola Masino, il realismo magico “della massaia”

Colta, emancipata, raffinata ed elegante, Paola Masino (Pisa, 20 maggio 1908 – Roma, 27 luglio 1989) è a pieno titolo una delle scrittrici del Novecento italiano che ancora oggi rivela tutta la sua attualità.  Intellettuale eclettica, prende le distanze  dal perbenismo ipocrita dell’Italia fascista sfidando, con la sua esperienza di vita e attraverso la scrittura,  quegli stereotipi sociali che relegavano il ruolo della donna all’interno delle asfittiche  mura domestiche.

La scrittura con Paola Masino diventa così strumento di denuncia delle storture della società piccolo-borghese. Una scrittura straniante, che si arricchisce di metafore e allusioni e che si muove tra il grottesco di Savinio, l’astrazione metafisica di De Chirico e la magia del realismo bontempelliano. Una prosa dunque che, nell’esattezza del dettaglio e nella lucidità  descrittiva di ogni singolo particolare,  coglie la realtà al di sotto della sua patina convenzionale, proprio lì dove si nasconde l’assurdo. E in questo palcoscenico, che è la vita, si muovono i suoi personaggi che si raccontano nelle loro ossessioni, nelle loro manie, nelle loro fragilità.

In questo complesso universo espressivo, si racchiude la potenza narrativa di Paola Masino che fa del linguaggio letterario lo strumento indagatore (e di riflessione) del mondo circostante.

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Barbara Gizzi è nata a Roma dove vive e lavora. Laureata in Lettere conseguita presso l’Università “La Sapienza”, ha poi vinto un dottorato di ricerca in Italianistica. È stata cultore della materia del Corso di Laurea in Studi Italiani; è stata membro della Commissione Prosa del Ministero per i Beni e le Attività culturali. È autrice di diversi saggi letterari; è autrice di programmi per Rai Educational e Sky; ha scritto per la Rai lo sceneggiato radiofonico “Espresso Siracusa – Milano”; si è occupata di critica teatrale; è docente, autrice teatrale, sceneggiatrice e regista; ha fondato, con Massimo Cimaglia, la società “Terra Magica Arte e Cultura” impegnata nella valorizzazione dell’area mediterranea attraverso il teatro, il cinema, l’arte. 

Gesualdo Bufalino e il gioco seduttivo del linguaggio

Gesualdo Bufalino, nato a Cosimo nel 1920 (RG) è uno dei principali rappresentanti della letteratura italiana contemporanea.

Che cosa rappresenta per noi Gesualdo Bufalino e perché ancora deve essere ricordato?

Gesualdo Bufalino ha posto al centro della sua narrativa il tema del ricordo e della memoria, ha saputo portare la narrativa italiana a livelli alti di sperimentazione linguistica; una sperimentazione non fine a se stessa ma sempre attenta al gioco seduttivo del linguaggio, alla scelta sofisticata, ricercata, mai banale di parole che, nelle sue opere, si caricano di una valenza anche musicale e fortemente visiva.

Rimasto esordiente fino all’età di 61 anni, pubblicò il suo primo romanzo nel 1981 con Diceria dell’untore che gli valse il Premio Campiello. Nel 1988 vinse il Premio Strega con Le menzogne della notte.

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Scopriremo a fondo Gesualdo Bufalino insieme a Giuseppe Digiacomo, Presidente della Fondazione Bufalino.

Silvio D’Arzo, una vita a “casa d’altri”

Silvio D’Arzo (Reggio Emilia, 6 febbraio 1920 – 30 gennaio 1952), una delle personalità più isolate nel e dal panorama letterario del dopoguerra. può essere ormai considerato uno scrittore-cult.

È la “brevità” la cifra esistenziale che caratterizza questo scrittore: la brevità di una vita prematuramente stroncata dalla leucemia, la brevità del periodo della sua rivalutazione editoriale post-mortem, la brevità dei suoi racconti.

Nonostante questo,  Silvio D’Arzo rimane uno degli scrittori più importanti del secondo ‘900 italiano.

Personaggio “anomalo” nel periodo fascista in cui è cresciuto – dove primeggiavano il superomismo e il narcisismo dannunziani -, D’Arzo prende le distanze anche dall’impegno civile e politico del Neorealismo. E proprio quell’eccesso di “scrupolo”, quel senso di estraneità alla vita, quell’essere inafferrabile caratterizzano la meteora esistenziale di questo scrittore.

E da qui può iniziare il viaggio all’interno del suo mondo letterario dove i protagonisti, ben lungi dall’essere illuminati dai riflettori della Storia, conducono vite appartate, marginali, ma significative  nel loro semplicemente “esserci”. 

Beh, Vivono. Vivono e basta, mi pare” (S.D’Arzo, Casa d’altri, p.7, Einaudi 1980).

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Roberto Carnero insegna Letteratura italiana presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell’Università di Bologna (Campus di Forlì). È critico letterario ed editorialista per varie testate, tra cui “Avvenire”, “Il Piccolo”, “Il Sole 24 Ore”, “Famiglia Cristiana”. Tra i suoi ultimi libri, pubblicati da Bompiani: Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla Generazione ZLo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana; Morire per le idee. Vita letteraria di Pier Paolo Pasolini. Sempre per Bompiani, ha curato, di Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India e, di Silvio D’Arzo, Essi pensano ad altro e Casa d’altri e altri racconti. Presso Giunti TVP – Treccani è autore, con Giuseppe Iannaccone, di una fortunata storia della letteratura italiana con antologia di testi per il triennio delle scuole superiori, la cui editio maior si intitola Vola alta parola

Fausta Cialente. La scrittura come strumento di lotta in nome della libertà e della giustizia, sociale e politica

Fausta Cialente (Cagliari, 1898-Pangbourne, 1994) può essere considerata una delle scrittrici italiane più importanti del Novecento italiano e una delle figure intellettuali più significative della cultura europea.

Narratrice, giornalista militante e radiofonica, traduttrice, insieme a Sibilla Aleramo è stata tra le prime ad appoggiare la causa femminile in Italia e a farsi promotrice del femminismo moderno. La vita da apolide, la sua famiglia triestina, il suo periodo egiziano ad Alessandria, i viaggi in Europa e il suo rapporto con Trieste, la Resistenza, l’impegno anti-fascista e la decolonizzazione: questi i temi centrali che ritornano nell’arco della sua produzione letteraria, che si nutre della sua cultura multietnica e cosmopolita.

Ricordare e conoscere le opere di Fausta Cialente significa dare il necessario riconoscimento innanzitutto a una donna che ha trovato nella parola letteraria, ricercata e precisa, delicata e lucida, a volte esoterica, a volte fiabesca, quella libertà espressiva che diventa strumento di lotta in nome della libertà, della giustizia, sociale e politica.

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Scopriremo questa grande scrittrice con Valentina Di Cesare, professoressa di Lettere, insegnante di Lingua italiana a studenti stranieri presso il Politecnico di Milano ed esaminatrice PLIDA per la Società Dante Alighieri. Ha pubblicato i romanzi Marta la sarta (Tabula Fati 2014) tradotto in lingua romena e in lingua tedesca, L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) e il racconto lungo Le strane combinazioni che fa il tempo (Urban Apnea 2018) recentemente tradotto in inglese.

Luigi Malerba, il grande sperimentatore linguistico

Abile giocatore di parole, inventore di nuove strutture della narrazione, astuto costruttore di mondi semantici, Luigi Malerba (1927-2008) è uno dei principali scrittori della letteratura italiana della seconda metà del ‘900.

Centrale nell’universo narrativo malerbiano è l’importanza assegnata alla parola: una parola ricercata, preziosa, materica, antica ma nello stesso tempo trasformata e deformata.

E proprio da queste continue deformazioni linguistiche, nel divertissment con cui Malerba piega le parole scaturisce l’ironia, altro segno distintivo della sua scrittura. Un’ironia che emerge proprio lì dove subentra l’assurdo, il non-sense dissacrante, il paradosso: strumenti linguistici che Malerba utilizza non come gioco fine a se stesso, ma anche e soprattutto per cercare un nuovo senso da dare alla realtà.

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Scopriremo a fondo Luigi Malerba con Francesco Muzzioli, professore prima di “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e poi di “Teoria della letteratura” della Facoltà di Lettere presso l’Università di Roma “La Sapienza”. F. Muzzioli è autore, tra gli altri, di saggi sulle avanguardie italiane degli anni Sessanta, su monografie su Pasolini, Éluard e Malerba.

Tra i suoi studi, oltre alle ricostruzioni della fortuna critica di Michelstraedter e Saba, uno spazio è stato dedicato alla letteratura fantastica e all’allegoria. All’attività del critico Francesco Muzzioli affianca anche l’interesse per la poesia. Dirige il blog letterario “Critica integrale”.

Scrittori nel boom: Ottiero Ottieri (1924-2002) e Paolo Volponi (1924-1994)

L’Italia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta muta volto: da paese essenzialmente agricolo e rurale si trasforma in uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Ma come tutte le crescite improvvise non mancano scompensi e storture:  il crescente divario tra Sud e Nord, la perdita dell’innocenza con una società che si fa più cinica e disincantata, il consumismo che rende il Paese più materialista e alienato. Inoltre, una consistente fetta della società che è tagliata fuori da questo apparente Bengodi comincia a gridare la propria rabbia rabbia che esploderà in quegli anni di piombo che insanguineranno l’Italia degli anni Settanta. A denunciare le suddette storture e a sottolineare i cambiamenti di quella società sono soprattutto due, appartenenti al cosiddetto filone della Letteratura industriale: Ottieri e Volponi. Sono anni in cui la letteratura aveva un dialogo importante con la società e ne sapeva scrutare le evoluzioni e i lati oscuri. Proprio sotto questa luce vanno rivisti questi due autori in particolare e le loro denunce ancora oggi estremamente attuali in un contesto in cui le tematiche di quei romanzi, dalla disoccupazione al mobbing, dalla condizione femminile all’emigrazione per non tacere delle morti sul lavoro rappresentano purtroppo ancora una parte importante della cronaca dei nostri giorni.

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Scopriremo a fondo Paolo Volponi e Ottiero Ottieri con Piergiorgio Mori, attualmente insegnante di Italiano presso il liceo George Baritiu di Cluj Napoca su incarico del Ministero degli Esteri italiano. E’ autore del saggio “Scrittori nel boom. Il romanzo industriale negli anni del miracolo italiano” ed è uno degli autori del volume “Italian Industrial Literature and Film. Perspectives on the Representetion of Postwar Labor and film” uscito nel 2021 per i tipi della Peter Lang Publishing.